Cinque Vitigni Famosi Italiani che hanno un altro nome altrove
La geografia del vino è fluida, mutevole, affascinante. Una stessa vite può portare frutti in contesti culturali e climatici completamente diversi, cambiando nome, espressione, identità. In certi casi si tratta di semplici sinonimi regionali; in altri, ci troviamo davanti a vere e proprie metamorfosi: uve italiane che all’estero sono conosciute con nomi totalmente differenti, a volte addirittura considerate autoctone in altri paesi. In questo articolo andremo a scoprire cinque casi emblematici di vitigni italiani celebri che, fuori dai confini nazionali o anche solo da quelli regionali, si presentano sotto altre spoglie. Dietro ogni coppia di nomi si nasconde una storia fatta di migrazioni, ibridazioni, contaminazioni culturali e stilistiche che raccontano l’anima complessa del vino europeo.

Rappresentazione Grafica | Photocredits © Become Somm
Primitivo → Zinfandel
Il viaggio del Primitivo è forse il più affascinante e cinematografico tra tutti. Questo vitigno, oggi simbolo della Puglia – soprattutto nelle zone di Manduria e Gioia del Colle – deve il suo nome alla sua precocità di maturazione, ma la sua origine è ben più antica e geografica di quanto si creda. Per anni si è pensato fosse un’uva strettamente autoctona italiana, ma a partire dagli anni ’90 le analisi del DNA hanno dimostrato una sorprendente verità: il Primitivo è geneticamente identico allo Zinfandel californiano, e al tempo stesso allo storico Tribidrag croato, noto anche come Crljenak Kaštelanski. Il punto di partenza è la Dalmazia, dove il vitigno veniva coltivato fin dal Medioevo, esportato poi in Puglia durante il Settecento e infine negli Stati Uniti, dove ha fatto fortuna in California. Nonostante il DNA sia lo stesso, le espressioni sensoriali cambiano con il territorio. Il Primitivo pugliese si presenta come un vino dal profilo intenso e avvolgente, con sentori di prugna matura, amarena sotto spirito, pepe nero, liquirizia e spesso con una vena balsamica che accompagna la sua generosa alcolicità. Lo Zinfandel californiano, invece, tende a sviluppare una fruttuosità ancora più pronunciata – mora, lampone, mirtillo – con accenti di vaniglia e spezie dolci, dovuti all’uso frequente del legno. In alcune zone californiane, la vinificazione dà vita anche a versioni più leggere, persino a rosati, come il celebre (e vituperato) White Zinfandel. Ma nei cru delle colline più fresche, lo Zinfandel torna ad assumere quella profondità che lo lega indissolubilmente al suo gemello europeo.
Schiava → Trollinger
La Schiava è uno di quei vitigni che raccontano la montagna, le pendici soleggiate dell’Alto Adige e del Trentino, la tradizione contadina del vino quotidiano, leggero ma non banale. Localmente conosciuta anche come Vernatsch, la Schiava è una varietà antica, coltivata da secoli lungo le valli alpine, e molto amata per la sua capacità di dare vini snelli, floreali, con un profilo gentile. Ma varcato il confine con la Germania, la stessa uva prende il nome di Trollinger, diventando il vino da tavola per eccellenza della regione del Württemberg. La storia del vitigno si intreccia con le migrazioni medievali e con i commerci tra le terre tirolesi e le aree germanofone. Il Trollinger, nella sua versione tedesca, è spesso vinificato con uno stile molto diretto: vino da bere giovane, fresco, con note di fragoline, ciliegia, erbe officinali e una lieve acidità. È un vino da merenda, da bicchiere disimpegnato. Diversa è la sensibilità italiana, dove i migliori produttori di Schiava oggi stanno recuperando vecchi cloni e vinificazioni più eleganti, talvolta con lievi macerazioni carboniche, per esaltare la sua delicata aromaticità: rosa canina, mandorla amara, piccoli frutti rossi e spezie sottili. È un rosso da servire fresco, magari con salumi e formaggi d’alpeggio, capace di sorprendere per leggerezza e finezza.
Sangiovese → Niellucciu
Poche uve rappresentano l’Italia vitivinicola quanto il Sangiovese. Da esso nascono vini immortali come il Brunello di Montalcino, il Vino Nobile di Montepulciano, il Chianti Classico. Ma non tutti sanno che il Sangiovese ha messo radici anche fuori dall’Italia, in particolare in Corsica, dove prende il nome di Niellucciu. Per decenni i corsi lo hanno considerato un vitigno autoctono, ma gli studi recenti ne hanno confermato l’identità genetica: è Sangiovese in tutto e per tutto. Tuttavia, l’ambiente mediterraneo, più arido e ventoso rispetto alla Toscana, dà al Niellucciu un carattere tutto suo. I vini di Patrimonio, una delle denominazioni più importanti della Corsica, hanno una trama tannica più morbida e un’espressione aromatica leggermente più selvatica, con note di macchia mediterranea, timo, olive nere e frutti scuri. In Toscana, invece, il Sangiovese si esprime con una gamma infinita di sfumature: dalle versioni più fresche e vivaci del Chianti alle potenze stratificate del Brunello, passando per le interpretazioni moderne dei Supertuscan. In tutte, però, il filo conduttore rimane l’eleganza del tannino e il ventaglio olfattivo in cui la ciliegia, la violetta, il cuoio e la terra si rincorrono con invidiabile armonia.
Ottavianello → Cinsault
L’Ottavianello è una rarità pugliese, coltivata quasi esclusivamente nel territorio di Ostuni. Per molti anni è stato considerato un vitigno minore, quasi dimenticato, ma negli ultimi tempi è stato oggetto di una riscoperta identitaria. La sorpresa arriva quando si scopre che l’Ottavianello non è altro che il Cinsault, vitigno francese originario del sud della Francia, protagonista silenzioso in molti blend del Languedoc, della Provenza e persino del Rodano meridionale. Il Cinsault è noto per la sua produttività e la capacità di mantenere freschezza anche in climi caldi. In Francia è spesso utilizzato per dare leggerezza e profumo a vini più strutturati, oppure per rosé eleganti e floreali. A Ostuni, invece, l’Ottavianello si esprime in purezza, dando vita a rossi di corpo medio, dai toni speziati, con profumi di ciliegia, pepe, alloro e una leggera nota ematica. Se in Francia il Cinsault è vino d’equilibrio, in Puglia l’Ottavianello diventa voce propria, capace di raccontare la mineralità e il calore della terra bianca degli uliveti pugliesi.
Trebbiano → Ugni Blanc
Chiudiamo il viaggio con un vitigno che ha fatto carriera altrove. Il Trebbiano Toscano è uno dei vitigni bianchi più coltivati in Italia, spesso impiegato in blend per dare acidità e freschezza, ma raramente celebrato per la sua personalità. Tuttavia, in Francia, questa stessa uva si è trasformata in colonna portante della distillazione, sotto il nome di Ugni Blanc. Si tratta infatti della base quasi esclusiva per Cognac e Armagnac, grazie alla sua acidità naturale, alla sua neutralità aromatica e alla capacità di reggere la distillazione mantenendo pulizia e struttura. Se in Italia il Trebbiano Toscano tende a produrre vini semplici, freschi, agrumati, da bere giovani, in Francia il suo ruolo è meno evidente ma più nobile. Nessuno lo beve direttamente, ma milioni di persone hanno assaggiato i suoi distillati senza saperlo. È il grande invisibile del mondo del vino, il motore silenzioso di alcuni tra i prodotti più complessi e longevi della tradizione francese.
Conclusione
In definitiva, c’è qualcosa di profondamente affascinante nella capacità di questi vitigni di adattarsi a nuove terre, cambiare volto, trasformarsi senza perdere la propria essenza. Non sempre ci è dato sapere chi è arrivato per primo, chi deriva da chi, chi ha dato origine a chi. La genetica ci aiuta, certo, ma non può raccontarci tutto. A volte l’identità di un vitigno è fatta tanto di DNA quanto di storia orale, di tradizioni contadine, di nomi tramandati con accenti diversi lungo sentieri che attraversano secoli e confini.
Ed è proprio questa molteplicità che rende il vino così vivo. Pensiamo ad altri esempi: la Ribolla Gialla che diventa Rebula in Slovenia; il Cannonau che si trasforma in Grenache in Spagna e Francia; l’Ormeasco ligure che è lo stesso vitigno del Dolcetto piemontese, ma con un carattere tutto suo; o il Nerello Mascalese, principe dell’Etna, spesso confuso in passato con il Calabrese, alias Nero d’Avola, semplicemente perché “veniva dal sud”.
L’Italia, con la sua frammentazione geografica e culturale, è il laboratorio perfetto per questi slittamenti identitari: un vitigno può cambiare nome da una valle all’altra, da una collina all’altra, da un dialetto all’altro. Ed è giusto così. Perché nel vino, come nelle persone, l’identità non è mai una sola: è un racconto in continua evoluzione.